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Trento, 19 aprile 2011
La morte di Vittorio Arrigoni
Addio a un costruttore di pace

lettera di Lucia Coppola, già vicepresidente del Forum Trentino per la Pace
da l’Adige di martedì 19 aprile 2011

Vittorio, ragazzo speciale, colto e molto motivato, energico e positivo, era uno dei tanti volontari, testimoni e artefici di un processo di pace ancora tutto da inventare, che dovrebbe sancire la fine delle violenza da entrambe le parti, l’impegno a far rispettare il cessate il fuoco ed il ripristino di una situazione di giustizia e legalità nei confronti del popolo palestinese, privato di tutti i diritti. Nei Territori della Cisgiordania, sempre più occupati, e a Gaza, striscia di terra fra le più popolate del pianeta, testimone di tutte le violenze e le sopraffazioni che da sempre si perpetrano in particolare nei campi profughi.

Ora, caposaldo di quell’estremismo islamico che è, purtroppo, l’inevitabile e drammatica conseguenza di un dolore non più sopportabile. Un dolore che Vittorio conosceva bene, lui che accompagnava i feriti sulle ambulanze, che difendeva i contadini e i pescatori, il loro bisogno di lavorare per vivere e mantenere le proprie famiglie. Lui, che ogni mattino raccoglieva sorrisi e lacrime di bambini senza scuola, di ragazzi senza università, di porti e aeroporti dove nessuno arriva e nessuno parte. Che conosceva la fatica delle donne, consolava i lutti, portatore di speranza e lui stesso, come tanti giovani volontari laici, cristiani e musulmani, forza di interposizione. Disarmato e appassionato, con lo sguardo intenso sotto il baschetto, la pipa in bocca e il tatuaggio con l’ancora come Braccio di Ferro. Rassicurante e un po’ irridente.

Ancora un po’ bambino e così tanto uomo da sfidare l’ignoranza e la barbarie, la violenza cieca che l’ha dapprima sottoposto a tortura e poi strangolato. Difficile sarà dimenticare quel suo sguardo ormai perduto, la consapevolezza della morte vicina, nell’impietoso video su You Tube dal quale tutti abbiamo capito che il suo era un viaggio senza ritorno. Lo ha capito sicuramente la sua coraggiosa mamma Elide, sindaco di Bulciago, preoccupata sino all’ultimo che non si colpevolizzasse tutto il popolo palestinese, facendo «di tutta l’erba un fascio». Che ha accostato le due bandiere sotto il palco nella veglia del ricordo, così come era stato fatto a Gaza. Attenta a difendere il suo ragazzo e le scelte così impegnative, estreme, che lo avevano portato in un luogo del mondo sconvolto non solo dal conflitto araboisraeliano ma anche dalle faide interne, dalla lotta tra laicità ed estremismo islamico, pericoloso per tutti. Anche per i «buoni», per quelli amati come Vic, definito «sincero amico del popolo palestinese, martire, eroe».

E per lui piange Gaza City, a lutto per un amico, coperta di drappi neri e illuminata dai fuochi delle fiaccolate. La città martire che ricordo fitta di case, diversa dalle altre località palestinesi, dolorosamente consapevole, cosmopolita e viva. Che mi ha accolto più volte e sempre con affetto, con l’ospitalità e il rispetto che circondano l’ospite di attenzioni anche nei momenti più cupi e dolorosi. E ricordo il suo mare, assurdamente e inutilmente azzurro, che si stagliava in lontananza, la spiaggia illuminata dal sole eppure triste e le conchiglie, grandi e meravigliose, che nessuno, a parte me in un momento di relativa calma, raccoglieva. Gaza, che potrebbe essere un giardino delle delizie, la «terra di latte e miele», come in un tempo molto lontano veniva chiamata la Palestina e che invece è per tutti, ora, «l’inferno di Gaza». Terra di tanti bambini e di tanti giovani, di tante armi e di violenza, su cui si stagliano a vedetta i mitra dalle torrette fortificate dei campi profughi, attraversati dalle fogne a cielo aperto su cui giocano bambini scalzi e sorridenti.

Per Gaza si può anche morire, questo è certo, perché se sei un ragazzo pieno di ideali e di forza, con occhi limpidi e capacità di interpretare il mondo, lì resti e ti batti per cambiare lo stato delle cose, e vuoi vedere come andrà a finire. Se giustizia sarà fatta, se la terra verrà restituita, come l’acqua, le strade, i campi, i luoghi di culto, le case espropriate. Se i muri saranno abbattuti e così i check-point. Se le scuole saranno riaperte e le università, di nuovo frequentate, formeranno la classe dirigente di un paese libero e moderno. Come un tempo è stata la Palestina. E ti alzi ogni mattina per fare il tuo dovere, per consolare, incoraggiare, denunciare la sopraffazione. Quando entri in terra di Palestina, la prima cosa che ti senti dire è «Non lasciateci soli!». Vittorio, vittima inerme di un destino crudele, non avrebbe lasciato sola la Palestina, che era ormai la sua casa e la sua ragione di vita.

La sua morte, così ingiusta, parla al mondo, parla alle nostre coscienze. Dice che si dovrebbe, e si sarebbe dovuto, fare di più. Infatti, l’Europa e l’America, le stesse Nazioni Unite, pur condannando l’uso indiscriminato della forza da parte di Israele e garantendo un sostegno anche economico alla lotta del popolo palestinese per la sua autodeterminazione, da troppo tempo hanno lasciato completamente scoperta la gestione politica del conflitto. I volontari sono diventati l’unica roccaforte, l’unica attenzione, l’unica forza di interposizione e la sola garanzia che degli osservatori neutrali assistano allo svolgersi degli eventi, vi partecipino, li raccontino.

Spesso, i notiziari che arrivano sino a noi, nella crudezza delle loro immagini, non consentono alla speranza di riaccendersi. I fatti parlano il linguaggio del sangue e violenza, ma nessuna soluzione possibile, nessuna risoluzione traspare dalla semplice enunciazione. Eppure non è possibile nascondersi la delicatezza del momento e l’importanza strategica che la pace in questa parte del mondo riveste per l’equilibrio mondiale. La sensazione a caldo è quella, comunque, che il grande tema di questo conflitto, cioè la condizione di un popolo che da più di sessant’anni vive in stato di guerra e privato dei più elementari diritti, non sia ancora abbastanza al centro della geo-politica del mondo. Anzi, spesso sembra che i riflettori si siano quasi spenti.

La pace non basta proclamarla o invocarla, limitandosi a descrivere il conflitto e condannandolo, è necessario costruirla, e deve essere una pace tra eguali. La morte di questo giovane dal cuore puro, di questo costruttore di pace, può diventare, non solo per il nostro paese ma anche per il resto del mondo, il segnale di una ripartenza, la certezza di un impegno che non può essere consegnato solo ad un pugno di coraggiosi e intrepidi, destinati a trasformarsi in martiri nell’indifferenza generale.

Ora interviene Obama esprimendo ferma condanna, mentre il segretario dell’Onu Ban-Ki-Moon ha definito l’accaduto «un crimine atroce, i colpevoli ne dovranno rispondere». Il presidente Napolitano ci ricorda che di barbarie terroristica si tratta e che suscita repulsione. Va tutto bene, ma ora chiediamoci: che cosa rappresenta, ancora, nello scacchiere mondiale il conflitto israelo-palestinese, anche alla luce dei movimenti di liberazione dalle dittature e per la democrazia che hanno infiammato il Mediterraneo negli ultimi mesi? E proviamo, provi chi governa il mondo e il nostro paese, a dare delle risposte. Intanto il nostro pensiero affettuoso, la partecipazione commossa, vanno a quella mamma e a quel papà, orgogliosi del loro figlio. Vanno al ritorno a casa di un vero martire, di un ragazzo semplice dal cuore grande, che meritava di vivere la sua giovinezza, i suoi ideali, la sua testimonianza. Che meritava di vivere.

Dobbiamo volere bene e sostenere tutti coloro che, come Vittorio, silenziosamente, generosamente attraversano conflitti, ideologie, estremismi, guerre di religione, per l’acqua, il petrolio, il controllo delle risorse, a difesa dei più deboli e dei senza diritti. In tante parti del mondo, senza chiedere niente in cambio.

Lucia Coppola
già vicepresidente del Forum Trentino per la Pace

 

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